Allenamento multifattoriale: oltre le rigide credenze.

Orientati di Marco Lombardi

Un'idea inflessibile

Ogni volta che pensiamo a un allenamento, a una programmazione o a una scheda di allenamento, ce lo aspettiamo "tosto" o comunque altamente intenso. Una sorta di "punizione" su carta, che ci permetta di redimerci da ogni possibile stanchezza, svogliatezza o pigrizia che sia. Portare a casa ogni possibile serie o ripetizione, affinché l'allenamento sia perfetto!

Non importa quanto stress ci portiamo addosso, non importa quanta stanchezza abbiamo e ne tanto importa come ci sentiamo, l'allenamento è a prescindere da fare al massimo. In caso contrario? Giudicarsi in malo modo diventa facile e vedersi male allo specchio diventa conseguenza.

Il mito del duro allenamento. Rigidi, non forti

Alla base, uno dei motivi che influenza questo mito che aleggia intorno agli allenamenti e alle programmazioni dure, è la performance. Ormai è diventato uno dei valori portanti della nostra società. Eccellere e primeggiare sono più importanti del percorso e quindi dell'apprendimento stesso.


Talvolta si confondono addirittura gli obiettivi, in quanto "il raggiungimento della vetta" diventa più importante del miglioramento stesso.

Ad ogni modo, nel vasto e confusionario mondo del fitness e dello sport, tra corpi scolpiti, fitness influencer e imprese epiche, si annida e prende piede l'idea che ogni allenamento, ogni programma, ogni sessione debba essere portata al limite, allo sfinimento, alla nausea. In modo rigido e militaresco, questa ideologia prende forma dagli spogliatoi alla sala pesi, fino a invadere ogni ambiente sportivo.

C'è appunto il soldato che "deve" portare a termine necessariamente ogni sessione, ogni allenamento, mentre dall'altra parte incontriamo i "mestieranti", coloro che prendono l'attività fisica o la programmazione come un vero e proprio lavoro. Per finire abbiamo i "colpevoli", coloro che non si sentono obbligati da un inflessibile dovere, bensì da sensi di colpa e vuoti esistenziali, qualora dovessero saltare la palestra.

In un modo o nell'altro, si trasforma il tutto in un atto inconsapevole e a tratti masochistico, di fronte a quello che si trasformerà in "duro lavoro a prescindere" e dove l'atto di "resistere" diventa l'unico metro di giudizio di una buona performance.

Ecco a voi presentato l'eco del moderno detto "No Pain-No Gain".

Ma perché questa disciplina, che in origine potrebbe attuare azioni costruttive e benefiche sotto ogni profilo, si trasforma con il tempo in una modalità rigida che nel tempo diventa controproducente e dannosa? Per meglio comprendere cosa accade in questo processo di trasformazione, è necessario comprendere prima di tutto la differenza tra disciplina e rigidità, comprendendo i confini e le loro differenze.


La disciplina, per definizione, indica la capacità di impiegare un impegno costante e coerente verso un obiettivo che non ha una scadenza imminente (a lungo termine). È una valutazione a cui segue una scelta consapevole, dove vengono ben definite le priorità e i propri ruoli. Questo valore tiene conto anche di ciò che contorna l'obiettivo e per tal ragione riesce a discernere tra le varie opzioni da optare, in maniera costruttiva. Alla base, oltre alla consapevolezza, troviamo anche una certa strategia, orientata verso il futuro. Autoconsapevolezza e flessibilità permettono alla disciplina di fluire, permettendoci di scegliere la cosa giusta nel progresso complessivo.



Un esempio di disciplina in ambito sportivo potrebbe essere: nonostante la poca voglia (pigrizia), decido di andare in palestra facendo un allenamento più leggero, focalizzandomi sulla tecnica o su esercizi che prediligo.

La rigidità, invece, per definizione è un'adesione inflessibile e acritica rispetto a un piano, una regola o una scelta. Ignora qualsiasi contesto, circostanza e condizione personale o altrui. È una chiara manifestazione d'incapacità o riluttanza nel prendere strade o scelte diverse rispetto a quelle già prese, anche se esse non portano a reali benefici. Molto spesso la rigidità coincide con le nostre paure. Paura di non essere abbastanza, di non fare abbastanza, paura di non essere capaci, paura di fallire o non riuscire; si basa altresì su semplificazioni eccessive. Non lascia spazio ad atteggiamenti consapevoli, anzi, diventano piuttosto irresponsabili, in quanto ignorano ogni segnale. Tali atteggiamenti alla fine portano a risultati controproducenti, in quanto non permettono nessuna evoluzione e adattamento. La rigidità è fare la cosa scritta sul foglio, a prescindere.


Un esempio a tal proposito nell'ambito sportivo potrebbe essere: forzo con uno squat il mio ginocchio, nonostante sia infortunato e in uno stato infiammatorio acuto, in quanto mi attengo al programma, senza riserve.


Fatta questa differenziazione, possiamo meglio comprendere i concetti che seguiranno.


Le radici del mito della "sofferenza": il lavoro duro a prescindere


La credenza che c'è alla base di questo mito è che per il progresso fisico (e non solo) sia necessario passare dalla sofferenza a ogni costo. Tanto più si soffre, tanto più alta sarà la gratificazione e il progresso verso la presunta "vetta olimpica".


Lo stesso motto "No Pain-No Gain" si fa strada come strumento di autovalutazione e validazione sociale, in particolare nell'ambito sportivo. Dimostrare di potersi spingere oltre i propri limiti, superando quindi gli altri, dà una certa dimostrazione di forza e superiorità. Dietro questo meccanismo, c'è una vera e propria volontà di validazione implicita, dove si ricongiunge con un consenso e un senso di approvazione esterna. In poche parole, soffrire, spingersi oltre, mi rende agli occhi degli altri un uomo che ha superato ogni limite e quindi si pone al di sopra delle capacità comuni. Un perfetto riflesso della cultura e della società della performance, dove eccellere e primeggiare sono diventati valori cardine. Ogni gesto, ogni azione è misurabile e quantificabile; di fatto non si guarda più l'esperienza o altri elementi, piuttosto il focus è rivolto solo ai "numeri" dati dai risultati ottenuti. Quindi, in questo modo, anche lo sport e gli allenamenti diventano una vera e propria industria, dove più si performa, più numeri si ottengono, più si produce. Chiaramente questo crea condizioni non umane e poco naturali, che a loro volta producono sofferenza fisica e psico-emotiva.

Le ragioni di questa idea affondano in una cultura variegata da diverse sfaccettature e alimentata in contesti differenti.


L'influenza dell'era industriale e del Capitalismo. Spiega come il corpo venga visto come una macchina da ottimizzare per la massima produttività, attraverso altissime performance. Insomma, il corpo va sfruttato al massimo, senza considerare fattori come "l'usura" dovuta al suo utilizzo e i possibili infortuni in cui si può incorrere. Il dolore assume una parte predominante, in quanto indicatore di performance valide e di livello; in tutto ciò non c'è spazio per il recupero o il riposo, conta solo portare a casa i risultati!


Sport tradizionale e allenamento militare. Storicamente parlando, questi due mondi hanno da sempre enfatizzato la fatica incessante, la sofferenza e la resistenza al disagio come strumento di raggiungimento degli obiettivi e prova di carattere. Superare i propri limiti, forgiare il carattere attraverso la privazione e il dolore, la sofferenza condivisa come legante per il gruppo, il dolore e la stanchezza come "pane per i deboli": sono tutti concetti chiave che spiegano bene su cosa si basano questi due ambienti.


La nascita del Bodybuilding e del mondo del Fitness moderno. Nel boom iniziale di questa disciplina, tra gli anni '60-'70 in poi, l'enfasi degli allenamenti era focalizzata sull'estrema intensità, con metodologie che miravano al "danno muscolare". Quindi l'obiettivo era rompere le fibre (i legami proteici delle fibre muscolari), con il fine di ottenere un'azione anabolica e di "pump" muscolare. Quindi si crea una certa associazione tra dolore e miglioramento muscolare/fisico.


In tutto ciò, diventiamo vittime e carnefici di noi stessi, incapaci di vedere al di là della regola e della rigida programmazione; accettiamo indistintamente, creando una sofferenza inutile, che alla fine indiscutibilmente accettiamo.

Accettare questo è come cercare di forzare una porta, pur avendo le chiavi a portata di mano per aprirla.

Un allenamento, più considerazioni da fare

Sono molteplici i volti che influenzano i nostri allenamenti. Per prima cosa va considerato che l'allenamento non è una semplice equazione per la quale applicando lo stimolo X si otterrà la risposta Y. Molto spesso accade, ma è una visione riduttiva e ignorante, in quanto ignora molteplici fattori che possono intervenire nella componente sessione di allenamento. Questo perché gli allenamenti non avvengono in un laboratorio o in un ambiente controllato; di conseguenza diventa importante fare una considerazione su quelli che possono essere i fattori che possono influenzarci e quindi influenzare i nostri allenamenti.


Primi tra tutti troviamo il lavoro e gli impegni quotidiani. Il lavoro acquisisce un ruolo da protagonista, in quanto passiamo moltissimo tempo nei nostri rispettivi luoghi di lavoro. Dall'altra parte spendiamo moltissimo tempo in ulteriori attività quotidiane che svolgiamo regolarmente (fare spesa, pulire casa, fare il bucato e così via). Questi due elementi hanno una forte influenza sui livelli energetici, tra stress e tempo, influenzando così i cicli circadiani e i nostri stati emotivi e psicologici. Non solo, anche la tipologia di lavoro può essere più o meno influente. Se, ad esempio, faccio un lavoro su turni, vado a disrompere i normali cicli di sonno-veglia, portando inevitabilmente a una qualità del sonno che sarà sicuramente inferiore. Questo a sua volta influirà sui recuperi, sull'umore, sul carico di stimoli che posso e riesco a dare, sulla performance e così via. Anche il quantitativo di ore lavorative e le modalità in cui si svolge il proprio lavoro possono contribuire in maniera importante. Se lavoro 40 ore settimanali (e non solo), sarà sicuramente diverso rispetto a chi ne lavora circa la metà, in un part-time. In questo modo, più lavoro e più risorse impiego, e meno ne avrò a disposizione per gli allenamenti.


Ma tra gli indiziati non abbiamo solo impegni e lavoro; piuttosto, anche la stagionalità del periodo può influire significativamente sulle nostre performance e voglia di allenarci. Tradotto: allenarsi d'inverno è chiaramente diverso dall'allenarsi d'estate. Perché? Perché le temperature possono provocare un ulteriore stress (stress termico). In estate, le temperature sopra i 30° e gli alti tassi di umidità possono far sì che il nostro corpo devii le energie per mantenere un'omeostasi termica (equilibrio termico), quindi investe maggiori energie per farlo. Di conseguenza, l'allenamento risente in maniera sostanziale dell'influenza termica e delle sue conseguenze. Non solo, con l'aumento delle temperature, la dispersione di liquidi è maggiore per via della sudorazione (dispersione di elettroliti e disidratazione), affaticando così il sistema cardiovascolare. D'inverno, il corpo ottimizza le sue energie in maniera diversa: se il caldo è un catalizzatore, il freddo tende a rallentare e a "mandare in letargo" le nostre energie. Durante questa stagione, il corpo impegna una buona parte delle energie per mantenere un'omeostasi termica (per via delle basse temperature); la diminuzione delle ore di luce fa sì che sia l'umore che la produzione di vitamina D siano bassi. L'autunno, per via del calo della luce e il graduale avvicinarsi della stagione fredda, ha un'azione inibitrice, mentre la primavera può essere un boost importante, in quanto preannuncia l'innalzamento delle temperature e preannuncia l'aumento delle ore di luce. Insomma, siamo completamente influenzati dall'ambiente circostante.


Ma ci sono altri aspetti, forse più delicati, che possono influenzare gli allenamenti, il modo di condurre le programmazioni e non solo, anche la propria vita. Nello specifico lo stress, di cui tanto si sente parlare di questi tempi. Esso può essere acuto o cronico e può avere una certa incidenza sul sistema nervoso. Ma prima ricordiamo che il sistema nervoso è la nostra "centrale di comando", che si occupa di gestire molteplici funzioni, tra cui battito cardiaco, respirazione, digestione, risposta agli stimoli, il meccanismo di "attacco-fuga" e altre funzioni involontarie. Questo fa parte del nostro "sistema simpatico". Dall'altra parte abbiamo invece il "parasimpatico", che è adibito al riposo e alla digestione, momenti in cui il corpo si rigenera. Lo stress cronico, in questo caso, fa sì che si abbia una dominanza da parte del sistema simpatico, facendo sì che il corpo mantenga un costante stato di allerta, senza alternarsi con quello parasimpatico (riposo). In questo caso si ha una produzione costante ed elevata di cortisolo, che è catabolico ad esempio, in quanto ostacola la sintesi proteica (costruzione della massa muscolare), oppure sopprime il sistema immunitario, diminuisce la capacità di recupero muscolare, influenza negativamente il sonno, crea disequilibri alimentari, diminuisce la concentrazione e influisce notevolmente sulla tolleranza agli sforzi (allenamenti).

Tutto questo condiziona quindi in maniera significativa il nostro stato di salute. Di fatto la dominanza del sistema simpatico data dallo stress eccessivo e cronico causa diversi problemi come insonnia, irritabilità, ansia, aumento dei rischi cardiovascolari, battito cardiaco elevato a riposo, cattiva digestione con svuotamento gastrico lento e così via, con una lunga lista di condizioni dannose e/o rischiose per la salute.


Tra gli altri elementi che possono determinare la qualità dei tuoi allenamenti come quella della tua vita abbiamo uno stato di salute generale.

Alcune malattie minori, come raffreddori, mal di gola o mal di testa, sono segnali che il tuo corpo ti lancia. Solitamente, nella maggior parte dei casi, l'approccio è allenarsi nonostante tutto. Tante sono le notizie di corridoio che circolano, ma allenarsi con uno stato di salute compromesso non fa altro che aggiungere ulteriore stress al sistema, influenzando negativamente il sistema immunitario e probabilmente prolungando lo stato di malattia. D'altro canto, spesso proviamo dolori e/o rigidità muscolo-articolari che bloccano o comunque limitano i nostri movimenti, con conseguenze sui nostri allenamenti. In questo caso, il nostro corpo ci sta segnalando un sovraccarico generale, dato probabilmente dalla somma di più fattori che hanno portato a limitazioni o a dei veri e propri blocchi. Questo si collega direttamente con il concetto di recupero generale e affaticamento sistemico accumulato. Tra questi troviamo il sovrallenamento (Overtraining), una condizione difficile da raggiungere con il solo allenamento, ma se vista in un contesto più ampio (lavoro, impegni, vita veloce, stress, debito di sonno ecc.), può facilmente verificarsi. Ma che cos'è l'overtraining? Una condizione in cui non c'è solo un esaurimento muscolare, ma prima di tutto è sistemico: nervoso, ormonale e immunitario. I sintomi sono molteplici, tra cui: insonnia, irritabilità, perdita di appetito, malattie frequenti, dolori persistenti, demotivazione, ansia, perdita di concentrazione, annebbiamento mentale e poca lucidità a livello cognitivo. Anche uno stato di fatica neurale può incidere in maniera significativa. Rappresenta una perdita di forza ed energia, accompagnata da un senso di indolenzimento muscolare o poca forza muscolare. A livello mentale invece, si percepisce una vera e propria nebbia mentale che non permette di mantenere uno stato di attenzione funzionale.


Sarà davvero finita qui la lista? La risposta è no.


Un elemento che viene spesso sottovalutato è la rete relazionale che abbiamo intorno a noi. Sì, perché molto spesso non teniamo conto che le relazioni sono ovunque intorno a noi e gestirle richiede un certo impegno energetico. Relazioni che possono essere di ogni tipo: il proprio partner, familiari, amici, colleghi di lavoro. Non solo, anche la relazione che instauriamo con gli ambienti circostanti ha una certa rilevanza: ambiente lavorativo, ambiente casa o famiglia, la propria città o comunità. Come possono impattare le relazioni su di noi e quindi anche sulla qualità degli allenamenti, come conseguenza? Semplicemente possono aggiungere ulteriore stress al già presente carico generale. Quindi se vivo delle tensioni in un ambiente o con una relazione in particolare, o entrambe le cose, sicuramente inciderà sui livelli di stress. Anche avere delle responsabilità può aumentare notevolmente il carico di stress. E quando invece ti prendi responsabilità che non sono tue? Quando svolgi compiti che vanno oltre le tue responsabilità? Ecco, chiaramente le cose peggiorano, il peso diventa pesante e logorante.


Questa rete di fattori che è stata elencata ci permette di capire come siano tante le sfaccettature e come l'approccio più comunemente usato, ovvero quello di seguire rigide regole, sia controproducente e probabilmente inefficace nel lungo periodo.

Basta leggere ogni elemento elencato all'interno del testo per comprendere che c'è una vera e propria interconnessione tra i vari fattori e come tutti possono influenzare il nostro stato di salute e le nostre capacità, sia fisiche che emotive.

Lo stigma del "non essere debole" rappresenta nient'altro che la maschera di chi non è in grado di misurare i propri limiti, di chi non riesce a evolversi e a migliorare per davvero. Figure rigide che, di fronte alle difficoltà, sono destinate a "spezzarsi".

Un concetto di allenamento rivoluzionario

Fino a questo momento, abbiamo visto come il mondo dello sport, del fitness e l'idea stessa che si ha del movimento siano associati a un'unica credenza dominante: soffrire corrisponde a migliorare. Nel passaggio precedente però, abbiamo visto invece che ci sono una serie di elementi che demoliscono questa idea, in quanto non è l'allenamento, né tanto meno la programmazione il centro della questione; allo stesso modo, nemmeno l'obiettivo che si è prefissati. Piuttosto, la prerogativa principale dovrebbe essere la salute e una condizione di benessere a 360°.


Eppure oggi, molto spesso, si pensa che il benessere passi da cose esterne, come in questo caso, la condizione fisica ottenuta da allenamenti intensi o programmazioni rigide e pesanti.


Il "Bias del sopravvissuto" ha un'impronta importante nella cultura del movimento. Abbiamo fatto nostra l'immagine dell'atleta che, spingendosi oltre ogni limite, superando qualsiasi ostacolo, è riuscito a ottenere risultati, raggiungendo podi e conquistando medaglie e gloria. Una sorta di invito e al tempo stesso demonizzazione della "debolezza".


Di fronte a tutto questo, di fronte a questa cultura, narrativa e ideologia, in che modo si può agire? Quale via si può seguire per ottenere un certo equilibrio e al tempo stesso risultati estetici e di performance? Ma soprattutto, c'è realmente un modo?

Un alternativa intelligente

L'alternativa all'approccio rigido, cui abbiamo analizzato, è un approccio alternativo che tenga conto delle altre variabili. In questo caso, facciamo riferimento a un approccio adattivo e multifattoriale. Ma che cos'è questo tipo di approccio e in cosa consiste?


È un percorso che volge alla consapevolezza, all'ascolto del proprio corpo, tenendo conto delle diverse sfaccettature della vita quotidiana e che prende in considerazione anche gli elementi del proprio percorso personale, unendoli a quello sportivo. Un processo che ha come centro il benessere del corpo e psico-emotivo.


Per realizzare tutto questo, è chiaro che ci debbano essere delle chiare volontà e soprattutto lo sviluppo di "strumenti utili" al percorso stesso.

Uno dei primi passi da fare è lo sviluppo dell'ascolto del proprio corpo, ovvero quello che in molti chiamano ascolto interiore. In realtà bisogna sviluppare un vero e proprio "senso" che ci permette di sondare cosa accade al nostro corpo e in che modo sta rispondendo a quel determinato stimolo. Questo si traduce con lo sviluppo dell'Interocezione. A differenza degli altri sensi (vista, gusto, olfatto, udito e tatto) che ci informano sul mondo circostante (esterocezione), l'interocezione è un senso che si può sviluppare e che ci permette di comprendere costantemente il nostro stato fisiologico, non solo del corpo, ma anche dei nostri stati psicologici ed emotivi.


Questo ci permette di interpretare i segnali interni, elaborarli e agire di conseguenza. Quindi un senso che riguarda la consapevolezza del sé. Questo può essere chiaramente implementato anche durante le nostre fasi di allenamento. Quindi il focus si sposta dall'obiettivo alle sensazioni che si hanno durante l'allenamento. Non i chilometri o le serie da finire, ma piuttosto come risponde il corpo a quel determinato stimolo, oppure come ci si sente nel mentre che si sta praticando un determinato tipo di attività: essere presenti.


Anche dopo ogni allenamento (e non solo), sarà necessario prendersi qualche minuto per fare una specie di "Body Scanning", per meglio comprendere le proprie condizioni e se l'allenamento è stato costruttivo oppure no.


Quindi, una volta sviluppato questo "senso della consapevolezza", diventa necessario approfondire ogni dinamica interna, ogni situazione che viviamo, che sia prima, durante o post allenamento. In questo caso la "rigidità" diventa nemica dell'adattamento biologico e del progresso stesso. Quindi accettare e modificare il proprio programma di allenamento in base alle esigenze del momento diventa un'azione intelligente e volta al vero miglioramento. Al contrario, portare a termine un programma o un allenamento, svalutando o non valutando affatto la propria condizione, diventa a lungo andare controproducente e anti-evolutivo.

Introdurre una vera e propria modalità di autoregolazione, dove si diventa flessibili anche di fronte a una programmazione rigida. Un altro elemento fondamentale, affinché l'autoregolazione sia efficace, è l'onestà: ovvero essere obiettivi e non farsi influenzare dalle proprie emozioni e quindi dal proprio stato d'animo. Ad esempio, se sono nervoso perché ho la spalla dolorante, non cerco di "spingere" facendo finta di nulla. Al contrario, gestisco le mie emozioni e il mio allenamento di conseguenza.

Sempre agendo in questi termini, è importante prendere in considerazione eventuali campanelli d'allarme che il nostro corpo ci lancia. La logica vorrebbe che "si prevenga piuttosto che si curi". A volte non c'è una semplice stanchezza, non è fatica accumulata, ma il nostro sistema corpo che è sovraccaricato dagli stimoli che gli abbiamo fornito.

Riconoscere queste "Red Flags" come indicatori o segnali di calo dello status di salute generale e come diminuzione della performance diventa una prerogativa. Ad esempio:


Performance in calo o stagnante: Nonostante la tua costanza negli allenamenti, ti accorgi a un certo punto che la forza, la velocità o altri parametri di lavoro decrescono oppure si riducono completamente i margini.

Recupero compromesso: DOMS che persistono, affaticamenti tendinei che non svaniscono. Segnali di un sovraffaticamento muscolare cronico.

Sonno disturbato: Risvegli notturni, difficoltà nell'addormentarsi, continui risvegli notturni.

Cambiamento dell'umore e crescente irritabilità: Rabbia continua e incontrollata, ansia, instabilità emotiva, demotivazione cronica, nebbia mentale e difficoltà nella concentrazione.

Segnali fisiologici: Inappetenza o fame emotiva, battito cardiaco a riposo alto, pressione arteriosa alta cronicamente.

Dolori persistenti: Dolori che continuano a persistere senza reali miglioramenti. Capacità di recupero altamente compromessa.


E dal momento che ci sono questi indicatori, cosa si fa?


In casi in cui la situazione è cronica o grave, bisogna prediligere un recupero passivo, quindi senza praticare alcun tipo di attività. In altri casi, se ci rendiamo conto che abbiamo una carenza energetica o che comunque non siamo in uno stato di forma ottimale, a quel punto bisogna puntare a un piano B. Il piano B ci permette di mantenere una pratica disciplinata e costante, ma che allo stesso tempo ci permette di salvaguardarci da possibili rischi.

Esempi di qualche piano B:

  • Invece di un allenamento ad alta intensità, sessione medio-leggera di pesi, dove valorizzo la tecnica affinandola, chiarendo dubbi su possibili esercizi complementari (o "accessori", "correlati", "specifici", "utili all'obiettivo", a seconda del senso di "agnostici").
  • Invece che allenarmi con sovraccarichi importanti con esercizi fondamentali, opterò per altri esercizi di base leggeri che magari preferisco.
  • Invece che stressare la parte interessata da dolori muscolari ormai cronici, decido di praticare esercizi di mobilità generale e tecniche di respirazione.


Questi sono alcuni esempi, ma possono essere tante le alternative. Una buona pratica, affinché si possano ottenere degli ottimi risultati, è trascrivere un diario giornaliero, dove riportare non solo quello che riguarda l'allenamento, ma che faccia riferimento anche a quello che succede ogni giorno, annotando sensazioni, intuizioni, emozioni, stati d'animo e pensieri.

A supporto di questo approccio multifattoriale e adattivo intervengono anche alcuni dati scientifici. La ricerca sul monitoraggio del carico di allenamento e l'analisi del rapporto tra carico acuto e cronico (ACWR - Acute:Chronic Workload Ratio) dimostra che aumenti troppo rapidi o sostenuti del carico di allenamento (o carico totale vita) sono predittori significativi del rischio di infortuni. Altri studi, in vari sport, hanno mostrato che atleti o squadre che implementano strategie di monitoraggio e adattamento del carico basate su parametri oggettivi e soggettivi tendono ad avere un'incidenza di infortuni inferiore. Esempio: Alcuni studi suggeriscono che mantenere l'ACWR tra 0.8 e 1.3 (carico acuto simile o leggermente superiore a quello cronico recente) possa ridurre il rischio di infortuni, mentre un rapporto superiore a 1.5 è associato a un rischio notevolmente aumentato (anche se l'applicazione di questo modello è complessa e dibattuta, il principio generale di gestione del carico è valido).

Il tuo benessere, il centro di tutto

La ricerca sulla risposta allo stress e sull'allostatic load dimostra che l'accumulo di stressor (stimoli fisici, psicologici, ambientali) può avere effetti negativi a lungo termine sulla salute (sistema immunitario, cardiovascolare, metabolico, mentale). L'esercizio fisico può essere uno strumento per gestire lo stress, ma solo se non aggiunge un carico eccessivo a un sistema già sovraccarico. L'adattamento del carico di allenamento in base ai livelli di stress di vita è una strategia consigliata per gli atleti e gli individui attivi.

Quindi ricorda, la prossima volta che ti convinci di allenarti "sopra", nonostante il tuo corpo, mente o altro richieda tutt'altra cosa, starai solo ingannando te stesso/a, facendoti del male.

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